Le soft skills nei bambini 3. Gli abiti

3 Gli abiti

Il concetto di abito proviene dalla filosofia greca. Il termine latino habitus traduce infatti il termine greco hésis. Questo, a sua volta, deriva dal verbo échein (lat. habēre: avere, possedere), che, in senso intransitivo e riflessivo, significa possedersi, comportarsi in un certo modo: da ciò deriva il significato di hésis (habitus) come una disposizione stabile che genera comportamenti costanti1.  

L’origine antica non deve trarre in inganno, come se si trattasse di qualche idea vetusta adatta a descrivere la situazione di uomini di un’altra epoca. Al contrario, la sua validità è passata al vaglio del trascorrere dei secoli ed è stata confermata dalle moderne scoperte della neurofisiologia sulla plasticità delle cellule nervose2.

Oggi sappiamo infatti che ogni comportamento umano ha il suo “programma” cerebrale, costituito da impulsi che si propagano da un neurone all’altro seguendo un percorso preciso, e sempre lo stesso per ogni comportamento fisicamente considerato3. Perciò ciò che appare nel mondo visibile dall’esterno – pensiamo, ad esempio, al volteggio di un acrobata – ha la sua radice in un determinato flusso di impulsi cerebrali.

Inoltre, sappiamo che il flusso di impulsi che nel cervello comanda un determinato comportamento produce altresì un effetto retroattivo, consistente nel marcare il percorso delle connessioni sinaptiche (cosiddetto “effetto feedback4). Succede che, rafforzandosi le connessioni fra le cellule che hanno veicolato quel processo, è come se nel nostro cervello fosse stato battuto un sentiero. Di conseguenza, dopo aver compiuto un comportamento la persona acquisisce naturalmente una maggiore facilità a ripeterlo, e più volte lo ripete più aumenta questa facilità. E’ questa la struttura della memorizzazione e dell’allenamento. Si giunge così, mediante la ripetizione dello stesso comportamento, a realizzarlo in modo spontaneo, senza pensarci: gli impulsi neuronali viaggiano, per così dire, “ad occhi chiusi”, seguendo la strada già battuta5. Per questo motivo i volteggi dell’acrobata sembrano così “naturali”, spontanei: è il frutto dell’allenamento per cui gli stessi gesti sono stati provati e riprovati centinaia di volte. Ognuna di queste volte ha lasciato il suo segno – ha scavato un solco -  nel cervello dell’acrobata. E’ questo solco che intendiamo per abito. Ciò che una persona è non viene, di conseguenza, pienamente espresso dalla sua fisicità. Esiste una potenzialità interiore che solo in certe circostanze può emergere, comandando certi comportamenti. Ad esempio, c’è una differenza reale fra una persona che sa nuotare e una persona che non sa nuotare; ma questa differenza si coglie solo quando quella persona si trova in determinati contesti: nell’esempio fatto, quando si trova in acqua.

Possiamo immaginare l’abito come una piega impressa su un foglio di carta. Una volta fatta, la piega rimane, generando la tendenza della carta ad assumere una certa posizione. Ciò non significa che il comportamento abituale sia obbligato: nella stessa situazione possiamo, se vogliamo, compiere atti diversi da quelli che ci risultano più facili. Avere una tendenza non significa essere incapace di comportarsi in modo diverso, ma solo avere una maggiore facilità a comportarsi in quel modo: così come l’usare di preferenza la mano destra non significa incapacità, ma solo maggiore difficoltà ad usare la mano sinistra. Occorrerà però, per agire in modo diverso, una riflessione e un’intenzione esplicita: comportarmi diversamente, laddove si è creato un abito, richiede da me uno sforzo. Infatti devo comandare ai miei impulsi neuronali di seguire un percorso diverso da quello già tracciato: percorrere una nuova strada è più impegnativo che non seguire quella già conosciuta6. Tuttavia posso farlo, se voglio e se affronto lo sforzo che ciò richiede. Posso anche insistere nel ripetere il nuovo comportamento e, a lungo andare, apprenderlo come abituale. In altri termini gli abiti, essendo frutto di atti volontari, possono anche cambiare grazie alla ripetizione di atti volontari. Essi sono stabili e hanno quindi, a breve termine, valore predittivo dei comportamenti della persona. Tuttavia, a medio e lungo termine, essi sono, in una certa misura, modificabili: dato che si costituiscono con la ripetizione di atti volontari, essi possono modificarsi con la ripetizione di atti volontari di contenuto diverso.

 Un discorso a parte riguarda quelle tendenze, o preferenze, che nascono nei primi anni di vita, anteriormente all’uso della volontà, come imprinting sul cervello di eventi che corrispondono o no ai bisogni del neonato, e che costituiscono nel loro insieme quella componente della personalità che si chiama  “temperamento”7. Le preferenze del temperamento sono come delle pieghe che, una volta date, non si possono più cambiare, ma solo conoscere. Il tema esula dagli scopi di questa trattazione8. Qui ci occupiamo solo delle tendenze acquisite con atti volontari, che costituiscono quella componente della personalità che si chiama “carattere”9.

L’intenzionalità necessaria per cambiare una tendenza del carattere è alla base della distinzione fra abitudine e abito. Entrambi si esprimono, dal punto di vista fisico, nella ripetizione di un determinato comportamento. Ma l’abitudine è priva di intenzionalità, perché la ripetizione è determinata dall’ottenimento di un risparmio di energie, ovvero dalla possibilità di concentrare la propria attenzione altrove. Così io ho l’abitudine di radermi tutte le mattine, e lo faccio, per l’appunto, senza pensarci. Ciò mi dà la possibilità di pensare ad altro, piuttosto che ai movimenti necessari per tagliarmi la barba. Il comportamento abitudinario, pertanto, è sempre uguale a se stesso. Si dice infatti che una persona è abitudinaria quando fa sempre le stesse cose, quasi senza pensarci, e le fa nello stesso modo.   Invece nell’abito la ripetizione è collegata con l’intenzionalità: compio quel gesto consapevolmente, ovvero con una intenzionalità legata proprio a quell’azione. Mentre nell’abitudine la ripetitività del comportamento si accompagna alla diminuzione della coscienza, nell’abito  la ripetizione del comportamento può accompagnarsi ad una intensificazione del livello di coscienza. Ciò comporta che l’abito, diversamente dall’abitudine, è sempre aperto al miglioramento. So nuotare, ma posso sforzarmi di nuotare sempre più veloce. E così via, per tutte le abilità10.

Dato che la distinzione fra abitudine e abito dipende dall’intenzionalità, lo stesso comportamento può essere abitudinario oppure abituale in relazione all’intenzione di chi lo compie. Così, ad esempio, per chi non ha alcun interesse a migliorare nella guida dell’automobile, guidare è un’abitudine, mentre per un pilota professionista è un abito.

Tralasciando le abitudini e concentrandoci sugli abiti, un’altra distinzione importante è fra abiti vincolati a un comportamento e abiti astratti. I primi sono l’espressione di flussi neuronali che comandano un determinato comportamento, inteso nella sua materialità: ad esempio, per citare esempi già fatti, saper nuotare o saper guidare l’automobile. Ma esistono flussi neuronali che comandano non un determinato comportamento, bensì una gerarchia di valori o un approccio razionale che riguarda un insieme aperto di comportamenti. Ad esempio, quando diciamo che una persona generosa ha la facilità ad anteporre le esigenze degli altri alle proprie, descriviamo un programma razionale che si può realizzare in situazioni molto diverse fra loro. Quando una persona si comporta secondo tale criterio in una determinata situazione, il percorso preferenziale dei flussi neuronali, che costituisce l’abito, riguarda non il comportamento in sé, ma l’applicazione di quella gerarchia di valori; e, di conseguenza, la facilità acquisita a comportarsi nello stesso modo riguarderà non il comportamento agito, ma il criterio applicabile a tante altre situazioni simili.

È proprio di questi abiti “astratti” (nel senso di “svincolati da un comportamento concreto”) che ci occupiamo quando parliamo di competenze.

 

ABITI E COMPETENZE

Nell’ etica il concetto di abito, nell’accezione “astratta” prima esaminata, è stato utilizzato in connessione col bene morale, per definire le facilità acquisite a compiere atti buoni o cattivi. Le prime sono state denominate “virtù”, le seconde “vizi”. In entrambi i casi lo schema neurologico prima descritto funziona negli stessi termini11.

La disgregazione di una cultura comune alla base della società civile, che si è progressivamente realizzata in Occidente negli ultimi secoli, ha reso sempre più problematica l’applicazione dei concetti di virtù e vizio nella descrizione dei comportamenti socialmente rilevanti. La difficoltà è consistita nel non poter applicare in modo univoco ad un comportamento la qualifica di “buono” o “cattivo”, dato che il riferimento – in astratto –  a un bene morale è risultato sempre più legato ad una determinata, e non necessariamente condivisa da tutti, visione dell’uomo. Così, ad esempio,  per chi parte da una concezione anarchica della società l’obbedienza non viene considerata, come nella tradizione culturale occidentale, una virtù, ma un vizio.

La difficoltà cui ho fatto cenno ha impedito ai concetti di virtù e vizio, elaborati in ambito morale, di entrare a far parte della psicologia sociale e in particolare della psicologia del lavoro. Questo fatto, assieme ad altre concause culturali che sarebbe adesso troppo lungo precisare, ha condotto però ad una conseguenza che il mondo del lavoro non ha potuto accettare: l’inqualificabilità dei comportamenti.  Se non esiste virtù o vizio, ciò significa che un comportamento vale l’altro, che non si dà cioè la possibilità di giudicare un comportamento come buono o cattivo. In altri contesti questa conseguenza ha potuto essere accettata o sopportata. Nel mondo del lavoro no: non è stato possibile perché il lavoro richiede risultati, e in relazione all’ottenimento dei risultati ci sono, evidentemente, comportamenti funzionali e disfunzionali, che non possono non essere qualificati come tali.

La reazione che il mondo professionale ha portato, per questo motivo, contro il relativismo etico ha subito comportato la ripresa del concetto di abito. Non è un caso che l’opera fondamentale di Stephen Covey (1932-2012), che può essere considerato come l’iniziatore di questa corrente di pensiero, si intitolasse The Seven Habits of Higly Effective People12; così come non è nemmeno un caso che, agli inizi, l’incomprensione culturale del concetto di abito fosse così marcata che le traduzioni italiane della sua opera abbiano reso il titolo come I sette pilastri del successo13 o Le sette regole per avere successo14, con un evidente stravolgimento dell’impianto concettuale.

Il successo del pensiero di Stephen Covey ha mostrato quanto il mondo del lavoro soffrisse la mancanza di strumenti teorici adatti ad esprimere le relazioni fra comportamenti umani e risultati. E’ in questo contesto che la nozione di competenza - intesa come l’insieme dei comportamenti abituali che l’esperienza dice utili per il conseguimento di uno scopo pratico o di una funzione professionale – si è diffusa rapidamente ed è diventata un cardine della moderna psicologia del lavoro. Essa ha avuto un’origine indipendente dal pensiero di Covey, ma ha coinciso con quest’ultimo nell’ impiego implicito della nozione di abito.

La teoria delle competenze consente un approccio agli abiti distinto e complementare rispetto a quello dell’etica.

La competenza condivide col concetto etico di virtù l’essere un abito comportamentale. Ma se ne discosta per i seguenti motivi:

  • Le virtù consistono in abiti buoni. La valutazione della bontà scaturisce dalla relazione fra i comportamenti e il fine dell’uomo considerato in astratto. Le competenze, invece, sono abiti funzionali. Esse non sono definite a priori, nell’ambito di una riflessione sulla natura dell’uomo, ma sono ricavate a posteriori dalla riflessione su ciò che l’esperienza dice essere utile per il conseguimento di uno scopo pratico o per l’adempimento di una funzione professionale. Il punto di partenza, perciò, è costuituito dallo scopo o dalla funzione che si intende realizzare: è in relazione a quest’ultima che si ricavano le competenze, intese come i comportamenti funzionali ad essi.

 

  • Un altro motivo di distinzione è che le virtù non si esauriscono nei comportamenti, ma comportano un aspetto intenzionale in relazione al bene, che viene definito come una connaturalità: l’uomo virtuoso non è soltanto colui che compie con facilità determinate azioni buone, ma anche colui nel quale si è sviluppato un gusto del bene, a motivo del quale egli compie le azioni buone con vera allegria, giudica correttamente a proposito del bene e riconosce le possibilità di realizzarlo nelle circostanze più diverse. Perciò la semplice ripetitività di un comportamento, sia pure aperto al miglioramento, non è sufficiente per indicare la presenza di una virtù, che non si riduce all’ automatismo di fare le cose buone senza sforzo. Si richiede, inoltre, che queste cose siano scelte in modo intenzionale come mezzi in ordine al bene15. Questi aspetti sono necessariamente trascurati dalla teoria delle competenze, mentre possono essere recuperati nel campo della motivazione e dello sviluppo personale.

 

Note

  1. Aristotele, Etica Nicomachea, II, 5, 1105b, ed. it. a cura di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1993, p. 95. Cfr. F. Brezzi, Dizionario dei termini e dei concetti filosofici, Newton Compton, Roma 1995.
  2. Cfr. C. Aoki – P. Siekevitz, La plasticità del cervello, in «Le Scienze», 246 (1989), pp. 24-32.
  3. Cfr. D. Partridge – L. Partridge, Nervous System Actions and Interactions: Concepts in Neurophysiology, Kluwer Academic Publishers, New York 2003.
  4. Cfr. A. Escobar, Feedback systems controlling nervous activity, Sociedad Mexicana de Ciencias Fisiológicas, Cuernavaca 1964.
  5. “Mentre acquisiamo il nostro repertorio abituale di pensiero, sentimento e azione, le connessioni neurali alla base di quel repertorio vengono rafforzate, diventando le vie di trasmissione preferenziali degli impulsi nervosi. Mentre le connessioni che non vengono usate si indeboliscono e vanno addirittura perdute, quelle continuamente usate si fanno sempre più robuste. Fra due risposte alternative, prevarrà quella che si avvale della rete di neuroni più ricca e più forte. Quanto più spesso quella risposta avrà luogo, tanto più importanti diventeranno le vie che la sostengono” (D. Goleman, Lavorare con intelligenza emotiva, cit., p. 288).
  6. “Further, it is now the contention of leading researchers in affective neuroscience and genetic expression that experience overtakes genetic dispositions in determining the biological basis of behavior once in adulthood. This would suggest that a person’s experience, and his or her arousal effect, rewire neural circuits and tendencies to invoke certain neuro-endocrine pathways. Offering support for the observation, or prediction is the proposed personality theory, that use of one’s competencies (i.e. behavior in specific settings in life) becomes an arousal that over time creates different dispositions, even at the biological level” (R. Boyatzis, Competencies in the 21st century, cit., p. 10).
  7. Cfr. C.R. Cloninger – D.M. Svrakic – T.R. Przybeck, A Psychological Model of Temperament and Character, in «Archives of General Psychiatry», 50 (1993), pp. 975 – 990; A. Schore, Affect Regulation and the Origin of Self,  Erlbaum, Hillsdale 1994; J. Kagan, Galen’s prophecy, Basic Books, New York 1994.
  8.  La conoscenza delle preferenze del temperamento può servire per scegliere gli ambiti professionali nei quali esse possono essere meglio utilizzate. Questa idea ha motivato lo studio dei “tipi” psicologici che derivano dall’interazione fra le varie preferenze. I più importanti strumenti diagnostici attualmente utilizzati sono l’MBTI (Myers-Briggs Type Indicator) e il BIG FIVE. Vedi I.B. Myers – K.C. Briggs, Myers-Briggs Type Indicators, Princeton Educational Testing Service, Princeton 1962; Eaed., Gifts Differing: Understanding Your Personality Type, Consulting Psychologists Press, Mountain View 1995; G.V. Caprara – C. Barbaranelli, La misura delle personalità in ambito organizzativo: i Big Five, in L. Borgogni (ed.), Valutazione e motivazione delle risorse umane nelle organizzazioni, Franco Angeli, Milano 1996.
  9. Sul carattere e la struttura delle personalità vedi G.W. Allport, Psicologia della personalità (1937), tr. it., LAS, Roma 1977; G.V. Caprara – G. Accursio, Psicologia della personalità e delle differenze individuali, Il Mulino, Bologna 1987; G.V. Caprara – G. Van Heck (eds.), Moderna psicologia della personalità, LED, Milano 1994.
  10. Il fatto che l’inglese habit significhi sia abito che abitudine ha contribuito ad oscurare questa importante distinzione.
  11. Cfr. R. García de Haro , L’agire morale e le virtù, Ares, Milano 1988, pp. 113 ss.
  12. Simon & Schuster, New York 1989. Cfr. Anche l’opera successiva, intitolata The 8th Habit: from Effectiveness to Greatness, Simon &  Schuster, New York 2004.
  13.  Bompiani, Milano 1997.
  14.  Franco Angeli, Milano 2005. Cfr. anche L’ottava regola: dall’efficacia all’eccellenza,    Franco Angeli, Milano 2005.
  15. Esiste pertanto un circolo virtuoso fra la ragione e gli abiti buoni: da un lato questi presuppongono le finalità buone colte dalla ragione, dall’altro sono essi stessi necessari alla ragione per cogliere i fini buoni. Cfr. A. Rodríguez Luño, La scelta etica, Ares, Milano 1988, pp. 99 ss. e 125 ss; Id., Etica, Le Monnier, Firenze 1992, pp. 227 ss.
Massimo Tucciarelli
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